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martedì 25 settembre 2018

Peter Bofinger: quei quattro saggi non sono molto saggi

L'UE perde pezzi, la Große Koalition va verso l'implosione, ma il consiglio dei cosiddetti esperti economici, i famosi saggi consiglieri di Merkel dal loro bunker di Berlino continuano a sfornare regole sull'austerità e sul deficit come se non ci fosse un domani. Peter Bofinger, membro del consiglio dei saggi, prende le distanze dai suoi colleghi e critica l'ultima proposta firmata da quattro dei cinque esperti volta ad esportare a livello europeo il famoso Schuldenbremse tedesco, vale a dire un pareggio di bilancio, un temibile "Schwarze Null" da applicare in maniera rigida secondo dei criteri meccanici. Un ottimo Peter Bofinger da Makronom.de


Sul portale VoxEU la settimana scorsa sono state pubblicate due proposte per la riforma dell'Eurozona: una di queste preparata dei miei quattro colleghi del Consiglio tedesco degli esperti economici, e un'altra da un gruppo di economisti francesi che fanno parte del Conseil d'analyse economique francese. La proposta di Lars Feld, Christoph Schmidt, Isabel Schnabel e Volker Wieland è modellata sul "freno all'indebitamento" tedesco (Schuldenbremse) e cambierebbe radicalmente le regole fiscali dell'Eurozona. Un'alternativa interessante la forniscono invece Zsolt Darvas, Philippe Martin e Xavier Ragot il cui modello si basa su di una regola di spesa derivata da un obiettivo di indebitamento pubblico di medio termine.

Entrambe le proposte contengono una regola di spesa, ma differiscono fra loro in maniera fondamentale. Come ancoraggio per la regola sulla spesa, Feld e colleghi preferiscono un criterio di spesa bilanciato meccanicamente. Questo concetto deriva dal Fiscal Compact europeo e impone agli Stati di perseguire un equilibrio di bilancio prossimo al pareggio. Per contro, la proposta francese declina elegantemente la regola del pareggio di bilancio, ancorando la regola di spesa a un obiettivo di indebitamento a medio termine per il quale esiste un margine di discrezionalità. Questa flessibilità può anche essere criticata, ma si può senza dubbio argomentare che è meglio fare affidamento su una propria valutazione piuttosto che su una regola meccanica priva di una ragionevole base teorica.

Nessuna evidenza di un "deficit bias"

Le regole del patto di stabilità e crescita (SWP) sono indubbiamente molto complesse e opache. Tuttavia ciò non significa necessariamente che le regole fiscali della zona euro "non fossero sufficientemente efficaci per limitare il deficit bias dei governi" e che siano state applicate in maniera troppo debole, come ritengono invece i miei colleghi del Consiglio degli esperti economici.

Un confronto internazionale dei saldi strutturali di bilancio mostra che nell'eurozona non vi è stata alcuna "distorsione del disavanzo" (Feld et al.) - al contrario: per molti anni, i disavanzi strutturali nell'eurozona sono stati chiaramente inferiori rispetto a quelli delle altre economie avanzate.


Cio' è stato particolarmente vero dopo la grande recessione. Rispetto al Giappone, al Regno Unito, agli Stati Uniti e all'OCSE nel suo complesso, nell'eurozona la risposta fiscale è stata estremamente debole, fatto che potrebbe essere considerato come una spiegazione decisiva per gli sviluppi macroeconomici estremamente sfavorevoli nell'area euro in quegli anni.

Dal 2014 il saldo strutturale dell'area euro è rimasto più o meno costante, e ciò riflette il fatto che il processo di consolidamento si è fermato. Si può criticare questa situazione in quanto ad esempio, i disavanzi di Francia e Spagna sono stati vicini o addirittura superiori al limite del 3% del Trattato di Maastricht. Ma guardando al passato si può dire che la combinazione fra la politica monetaria espansiva della Banca centrale europea e una politica di bilancio più rilassata ha portato a una ripresa economica piu' sostenuta nell'eurozona. In altre parole: la flessibilità offerta dal patto di stabilità e crescita, soprattutto a partire dal 2014, non è stata uno svantaggio, ma un vantaggio.

Non è affatto ovvio quindi che il principale problema delle regole fiscali dell'eurozona sarebbe "il ben noto deficit bias", come scrivono Feld e gli altri. Piuttosto gli sviluppi dopo la grande recessione hanno mostrato che il problema principale è la mancanza di coordinamento fiscale che durante una recessione molto lunga ha portato a politiche fiscali non sufficientemente espansive nei 19 stati membri. La questione è stata ulteriormente elaborata nel 2015 anche nella cosiddetta relazione dei 5 presidenti e ha portato alla creazione dell'European Fiscal Board, il quale ha il compito di consigliare la Commissione europea al fine di comprendere se la politica fiscale è appropriata sia a livello nazionale che per l'area dell'euro nel suo complesso.

Differenze e somiglianze con il patto di stabilità e crescita

Le norme sulla spesa e la riforma delle regole esistenti proposte da Feld et altri differiscono dalle altre recenti proposte di riforma in quanto intendono mantenere la regola del pareggio di bilancio contenuta nel Fiskalpakt. A tale riguardo, il meccanismo sottostante alla loro proposta non differisce dallo status quo all'interno del quadro fiscale dell'Eurozona che sin dalle riforme del Six Pack del 2011 include un benchmark di spesa pubblica. Questa regola di spesa è concepita per  un percorso di spesa che consenta di raggiungere nel medio termine l'obiettivo di un bilancio strutturalmente in pareggio. Così dice il corrispondente regolamento UE:

"per gli Stati membri che non hanno ancora raggiunto il loro obiettivo di bilancio di medio termine, la crescita della spesa annua sarà inferiore rispetto al tasso di riferimento a medio termine della crescita potenziale del PIL, a meno che il superamento di questa soglia non sia compensato da misure discrezionali di pari importo sul lato delle entrate; il divario tra il tasso di crescita della spesa pubblica e il tasso di riferimento di medio termine della crescita potenziale del PIL è fissato a un livello che garantirà un aggiustamento adeguato verso l'obiettivo di bilancio di medio termine;"

Rispetto al patto di stabilità e crescita, la regola sulla spesa pubblica non rappresenta quindi la principale innovazione della proposta tedesca - l'innovazione consiste nell'introduzione di una sorta di "memoria" all'interno del PSC. Fino ad ora gli stati membri non erano tenuti a compensare i precedenti disavanzi con delle eccedenze corrispondenti: a dover soddisfare i requisiti del patto ci sono solo il disavanzo corrente e le previsioni sul suo corso futuro. La seconda grande innovazione è l'eliminazione delle deroghe per gli scostamenti dagli obiettivi di medio termine (o dai percorsi di aggiustamento per il loro raggiungimento) nel caso di riforme strutturali che comprendano anche investimenti pubblici.

La proposta dei miei colleghi pertanto non è esclusivamente volta a rendere le norme esistenti "più semplici" e "più trasparenti". Con l'introduzione della funzione di memoria il PSC si trasformerebbe in un sistema più o meno identico allo Schuldenbremse tedesco - il che avrebbe conseguenze di vasta portata. Come mostrano le simulazioni di Feld et al. sarebbe la Francia in particolare a dover compensare attraverso pesanti tagli alla spesa il non raggiungimento a partire dal 2013 del parametro di riferimento dello 0,5% nel disavanzo strutturale. La necessità di compensare le deviazioni del passato porterebbe non solo ad una politica pro-ciclica, ma diventerebbe anche un onere molto pesante per un nuovo governo costretto a pagare per gli errori dei suoi predecessori.

Le differenze tra la proposta tedesca e quella francese

A prima vista, si potrebbe pensare che la proposta tedesca sia molto simile a quella del Conseil d'analyse economique, pubblicata nello stesso periodo. In effetti, entrambi i concetti implicano una regola di spesa. Ad un esame più attento, tuttavia, ci sono differenze fondamentali.

In sostanza, gli economisti francesi propongono un modello basato su decisioni politiche discrezionali, mentre i tedeschi propongono un approccio ampiamente basato su delle regole meccaniche. Questa differenza è dovuta al fatto che la proposta francese si astiene completamente dalla definizione di una norma per individuare il disavanzo strutturale. Il loro concetto non ha quindi un ancoraggio quantitativo implicito nell'impegno a raggiungere il pareggio di bilancio.

L'àncora delle regole francesi è invece l'obiettivo di ridurre il rapporto debito / PIL. Gli autori sottolineano esplicitamente che questo obiettivo, ancora una volta non dovrebbe essere determinato da una formula, ma dalle decisioni dei governi. Il percorso per lo sviluppo della spesa è quindi derivato dall'obiettivo di debito e deve essere determinato dalle autorità fiscali nazionali. Se le spese si discostano dal loro percorso obiettivo, dovrebbero essere registrate in un conto di aggiustamento. E se questo conto dovesse superare un valore di riferimento, sarà allora rilevata una violazione delle norme sul debito. Per una tale condotta non è tuttavia prevista una successiva compensazione da effettuarsi con una riduzione della spesa.

"Golden rule" Vs."Schwarze Null"

Per l'ulteriore sviluppo delle regole fiscali europee ci sono quindi due concetti completamente diversi. La proposta tedesca è caratterizzata dalla semplice idea che una politica fiscale ottimale è caratterizzata da un bilancio in pareggio. Da questo ideale, noto come "Schwarze Null", emerge il percorso della spesa pubblica. La proposta francese presuppone invece che gli obiettivi a medio termine della politica fiscale debbano essere determinati in un complesso processo decisionale, e non con delle semplici formule. Tutto sommato, la proposta francese è più vicina allo status quo rispetto a quella tedesca.

Le regole semplici possono avere i loro benefici, ma devono essere ben motivate - e tuttavia non è il caso dello Schuldenbremse tedesco che Feld et al. ora vorrebbero espandere all'intera Eurozona. Nella teoria della politica fiscale tradizionale la "regola d'oro" si trova solo come punto di riferimento per il livello ottimale di debito pubblico da raggiungere. Essa afferma che un aumento del debito pubblico può essere tollerato solo nella misura in cui coincide con almeno un aumento altrettanto consistente della ricchezza netta dello stato. Di conseguenza, finanziare gli investimenti pubblici ricorrendo all'indebitamento avrebbe senso. In effetti, il Consiglio tedesco degli esperti economici diversi anni fa ha pubblicato uno studio sulle regole di bilancio in cui ha espressamente dato il benvenuto alla "regola d'oro" sostenendo "che introdurre un divieto generale di indebitamento(...) [sarebbe] economicamente insensato, come vietare ai cittadini o alle imprese private di prendere denaro a prestito".

Si può criticare la discrezionalità prevista dalla proposta francese. Ma questa offre almeno la possibilità che gli obiettivi di indebitamento consentiti possano essere determinati in un ampio dialogo tra scienza economica e politica, tra economisti nazionali e stranieri, sulla base della teoria economica e delle prove scientifiche disponibili. Soprattutto la proposta potrebbe almeno fornire un margine minimo per gli investimenti finanziati a debito. In questo caso, le probabilità di realizzare una buona politica fiscale negli Stati dell'eurozona saranno sempre maggiori rispetto alla possibilità di mettere tale politica nelle mani di una semplice regola meccanica.

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mercoledì 7 dicembre 2016

Un'analisi della situazione italiana dopo il voto del 4 dicembre

Al di là dei cliché razzisti alla Gumpel e Piller, di cui la stampa tedesca non è mai avara, a volte si riescono a trovare anche analisi piu' equilibrate sulle reali conseguenze del voto del 4 dicembre. Su Makronom.de Philipp Stachelsky prova a rispondere ad alcune domande sugli effetti del voto italiano. Da Makronom.de


Hanno vinto i populisti (di destra)?

Non necessariamente. Sicuramente la campagna contro la riforma costituzionale è stata portata avanti anche da partiti che possiamo ricondurre all'area populista. Fra questi ci sono il M5S, Forza Italia e la Lega Nord (sebbeno quest'ultimo potrebbe essere classificato come una classica forza di estrema destra).

Il NO tuttavia è stato supportato da un'ampia alleanza, ad esempio da alcuni sindacati e da pezzi dello stesso partito di Renzi. Anche nella società civile la riforma ha trovato dei veri e propri avversari. Renzi stesso si è servito di un metodo che puo' essere classificato come populista: per far passare la riforma ha legato il suo personale destino politico con il referendum. Sperava di poter sfruttare i suoi (allora) alti livelli di popolarità - ma di fatto si è rilevato un errore fatale.

Esiste la minaccia di un Italexit?

Può sembrare strano: la famosa Italexit, cioè l’uscita dell'Italia dall'Euro, con la bocciatura della riforma costituzionale è diventata più improbabile. Cio' è dovuto prima di tutto alla necessaria e molto probabile modifica della legge elettorale. Il cosiddetto Italicum prevede infatti che il partito che raggiunge il 40% dei voti ottenga come premio di maggioranza il 55% dei seggi. Se nessun partito raggiunge il 40 % si va al ballottaggio fra i primi due partiti e il vincitore ottiene il premio di maggioranza. La legge avrebbe dato quindi ad un solo partito una maggioranza assoluta dei seggi - e quel partito secondo gli attuali sondaggi avrebbe potuto essere il Movimento 5 Stelle.

Questa legge elettorale, secondo la maggior parte degli osservatori, verrà in qualche modo rivista da un governo di transizione, in quanto era stata progettata sul presupposto che la riforma costituzionale alla fine sarebbe passata. Sono stati inoltre presentati dei ricorsi sui quali la Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi nelle prossime settimane.

Il secondo ostacolo per un referendum sull'uscita dall'Euro è nella Costituzione italiana. Questa all'articolo 75 chiarisce che non puo' esserci un referendum su una legge di ratifica dei trattati internazionali. Per una riforma della costituzione ci sarebbe bisogno sia alla Camera che al Senato di una maggioranza di due terzi - che per gli euro-critici a causa della probabile revisione della legge elettorale è ancora molto lontana. Per un eventuale governo euro-critico sarebbe tuttavia possibile indire un referendum consultivo non vincolante. Ma questo potrebbe essere un problema nel medio termine.


L'italia farà le riforme urgenti e necessarie?

Su una parte della stampa tedesca è ormai consuetudine ripetere che le riforme in Italia vengono fatte ad un ritmo troppo lento e che manca la volontà di riformare. Di fatto in Italia negli ultimi anni si è fatto molto. Renzi ad esempio è riuscito a far approvare una controversa riforma del mercato del lavoro che ha notevolmente ridotto le tutele contro il licenziamento. Anche il „Labour Market Reforms Database“ della Commissione UE mostra che solo pochi paesi europei dopo la crisi finanziaria hanno fatto piu' riforme di quante ne abbia fatte l'Italia - una larga parte di queste riforme sono state fatte durante il governo di Mario Monti, che notoriamente era a capo di un governo di tecnocrati.

Questa scala puramente quantitativa non dice naturalmente nulla sulla qualità delle riforme. E non significa che l'Italia non abbia bisogno di ulteriori riforme. E’ probabile pero’ che per i futuri governi italiani, dopo l'approvazione delle riforme, sarebbe stato piu' facile far passare le leggi (fatto che di per sé non dice nulla sulla loro qualità). 

Che l’Italia abbia bisogno di ancora piu' riforme o di riforme esclusivamente sul lato dell'offerta è un fatto ampiamente discutibile. Gli economisti che di tanto in tanto danno uno sguardo al lato della domanda argomentano che per la ripresa italiana sarebbe necessario un forte stimolo economico da realizzarsi con una maggiore spesa pubblica.


L'Italia avrà dei massicci problemi di rifinanziamento?

Improbabile, anche se il governo ha un debito pari al 133% del PIL - solo la Grecia ha un rapporto debito-PIL piu' alto. Di conseguenza se i tassi sul debito italiano dovessero salire sarebbe tutt'altro che facile. Proprio prima del referendum i rendimenti sui titoli di stato italiani erano cresciuti in modo significativo: in agosto i titoli decennali erano appena sopra l'1%, nelle ultime settimane erano saliti sopra il 2%.

Tuttavia questo aumento dei rendimenti non deve essere sopravvalutato. Secondo l'agenzia del debito italiana, il prossimo anno lo stato dovrà rifinanziare debiti per un valore pari a 318 miliardi di Euro. Vale a dire circa il 14% di tutto il debito in circolazione. Per una larga parte dei titoli in scadenza nel 2017 lo stato ha dovuto pagare fino ad ora dei tassi nettamente superiori rispetto a quelli ottenibili sui mercati in questo momento. E la prima reazione fa pensare che in futuro i mercati non richiederanno tassi piu' alti dallo stato italiano: i rendimenti si muovono all'incirca sui livelli delle settimane che hanno preceduto il voto. Sembra quasi che i mercati avessero già prezzato l'esito del referendum nelle quotazioni.

Se la situazione restasse immutata, l'Italia potrebbe proseguire il processo di rientro dal debito a condizioni decisamente piu‘ favorevoli rispetto a quelle degli anni precedenti. La spesa per interessi nel bilancio pubblico italiano (attualmente pari al 3.8% del PIL) continuerebbe a scendere, anche se non cosi' rapidamente come si poteva pensare nei mesi estivi.

E anche se i rendimenti dovessero schizzare verso l'alto e l'Italia dovesse avere problemi a trovare denaro a sufficienza sul mercato primario per rimborsare il proprio debito, in caso di emergenza la BCE potrebbe alleggerire il peso del debito con un allargamento del suo programma di acquisto di titoli (QE). La banca centrale in quel caso dovrebbe comprare una quantità maggiore di titoli italiani rispetto a quanto previsto nel piano precedente.

Non è tuttavia chiaro come reagiranno le agenzie di rating al NO: S&P e Moody hanno recentemente confermato il loro rating sull'Italia, Fitch ha abbassato l'outlook a negativo. DBRS aveva segnalato la possibilità di un downgrade in caso di fallimento del referendum. Se le agenzie decideranno realmente di fare il downgrade è ancora presto per poterlo dire. Fatta eccezione per S&P, il debito italiano, presso tutte le altre 3 agenzie, ha ancora un buffer di almeno un gradino prima di entrare nell'area dei titoli speculativi.

La crisi economica e bancaria si aggraverà?

L'incertezza politica sicuramente non migliorerà il clima per gli investimenti. Tuttavia le reazioni al post-brexit hanno mostrato che sia l'economia reale che i mercati finanziari si sono ormai abituati a questi eventi schock. La Spagna è sopravvissuta quasi un anno senza un governo e senza collassare.

La question piu' importante sarà lo sviluppo della crisi bancaria. Le banche italiane - anche a causa della debole congiuntura economica - hanno una quantità enorme di sofferenze nei loro bilanci. Soprattutto MPS negli ultimi mesi è stata messa sotto pressione. La banca piu' antica del mondo sta cercando di raccogliere capitale fresco dagli investitori privati e di vendere una parte del suo portafoglio di crediti deteriorati. Ci sono già voci relativi ad incontri con investitori che stanno trattando la loro partecipazione in MPS. Se il tentativo di risanamento dovesse fallire il dibattito sui salvataggi con i fondi statali dovrebbe ricominciare da capo.

Che cosa significano le dimissioni di Renzi per i poteri europei?

Renzi negli ultimi anni fra tutti i leader europei è stato quello che con maggiore veemenza ha chiesto la fine delle politiche di austerità. Si puo' ragionevolmente pensare che con la sua uscita di scena saranno rafforzati i paesi che prima di tutto insistono sulla necessità delle regole di bilancio e sulle riforme dal lato dell'offerta. 

Tuttavia si potrebbe anche ipotizzare che un governo tecnocratico che agisce in maniera meno plateale potrebbe avere addirittura maggiori chance, almeno nel breve periodo, di ottenere da Berlino e Bruxelles margini di manovra piu' ampi per la politica fiscale. Il ragionamento dietro questa tesi è il seguente: Renzi in passato ha agito in maniera molto aggressiva contro i diktat di risparmio tedeschi ed europei - fatto che ha reso molto piu' difficile per i paesi sostenitori di queste posizioni cercare di andargli incontro; ogni concessione poteva essere considerata come il risultato di un tentativo di ricatto, indipendentemente dalla realtà dei fatti. Che in particolare il governo tedesco non sia particolarmente sensibile verso questo tipo di atteggiamento, è stato reso evidente dalla umiliazione duratura e continuativa del governo greco di Syriza. 

Quindi, se oggi un governo tecnico italiano dovesse chiedere una politica di bilancio piu' accomodante senza destare troppo scalpore, potrebbe avere un discreto successo. Alla fine gli altri governi europei, incluso quello tedesco, per paura di un rafforzamento delle forze euro-critiche potrebbero concedere all'Italia una politica fiscale piu flessibile per rimettere l'economia italiana di nuovo in pista e togliere la benzina dell'insoddisfazione economica dal motore dei movimenti in ascesa. E' possibile, sebbene non cosi' probabile.




giovedì 10 novembre 2016

I danni fatti dallo Schuldenmbremse

Lo Schuldenbremse tedesco, che di fatto è il modello a cui ci si è ispirati per il pareggio di bilancio nella Costituzione italiana, in Germania ha causato solo danni. Su Makronom Gustav A. Horn, il direttore del prestigioso Instituts für Makroökonomie und Konjunkturforschung (IMK) presso la Hans-Böckler-Stiftung spiega perché ormai è arrivato il momento di rimuoverlo. Da Makronom.de


Lo Schuldembremse tedesco viene celebrato come una storia di successo. Di fatto è una misura pericolosa e inutile che impedisce la crescita del benessere e aumenta l'instabilità. Un commento di Gustav Horn e Katja Rietzler.

Qualche settimana fa il presidente DIW Marcel Fratzscher ha criticato l'ex capo economista della BCE Otmar Issing, il quale aveva chiesto più' investimenti pubblici, e allo stesso tempo aveva proposto di finanziarli con una riorganizzazione della spesa pubblica. La proposta di Issing di fatto equivale ad una difesa dello "Schwarze Null" (pareggio di bilancio) in quanto obiettivo di politica economica.

Giustamente Fratzscher evidenzia i problemi sollevati da un tale obiettivo, in particolar modo nel caso in cui la crescita potenziale di un'economia sia cosi' bassa come in Germania. Fratzcher al contrario propone di sfruttare gli spazi fiscali disponibili, per aumentare gli investimenti pubblici anche in un regime di "Schuldembremse" (legge Costituzionale introdotta nel 2009 valida sia a livello federale che nei Laender e che impone un bilancio pubblico in pareggio oppure un deficit strutturale massimo dello 0.35%). In questo modo si avrebbe un aumento della crescita potenziale, che alla fine è quella che determina la nostra prosperità. Tutto cio' sembra pragmatico, giusto e buono.

Ma alla fine del suo discorso si trova una frase che lascia sbalorditi. Fratzscher scrive.

"lo Schuldenbremse è giusto e necessario ed ha portato ad una riduzione del debito nazionale, purtroppo anche a scapito degli investimenti pubblici"

Questa frase irrita, soprattutto alla luce di quanto scritto prima. Senza dubbio la bassa crescita della produttività è attualmente uno dei problemi piu' gravi, se non il problema piu' grave dell'economia tedesca. Ed è per questa ragione che gli spazi per un aumento del potere di acquisto dei consumatori o per un aumento dei profitti aziendali sono limitati. In altre parole: la crescita del nostro benessere sta rallentando.

Una ragione fondamentale di questo processo probabilmente è la mancanza di investimenti nei settori produttivi. Questo vale sia per gli investimenti privati in macchinari e attrezzature, ma soprattutto per gli investimenti pubblici in infrastrutture. Di fatto gli investimenti pubblici sono da molti anni negativi, una lunga fase interrotta solo dai programmi congiunturali durante la crisi. Vale a dire, gli ammortamenti sono superiori alla formazione di capitale lordo. Formulato altrimenti: l'infrastruttura pubblica si sta consumando.

Che da questa situazione non possa emergere una crescita della produttività è tutt'altro che sorprendente. La vera questione da indagare è se lo Schuldenbremse impedisce una duratura ripresa degli investimenti; e se è cosi', perché allora sarebbe "giusto e necessario" come ha scritto Fratzscher? Lars Feld, membro del Consiglio dei Saggi Economici e come Fratzscher membro della commissione per la promozione degli investimenti presso il Ministero dell'Economia nega addirittura ogni connessione fra lo Schuldenbremse e la debolezza degli investimenti.

E' vero che negli anni passati, anche dopo l'introduzione dello Schuldenbremse, ci sono state notevoli possibilità di fare investimenti. Grazie alla forte congiuntura interna e al corrispondente forte aumento delle entrate fiscali, è stato relativamente facile soddisfare i requisiti previsti dallo Schuldenbremse. E' stata piuttosto una scelta ideologica della politica quella di non utilizzare gli spazi disponibili per aumentare gli investimenti. Si è scelto di dare alla crescita futura una priorità inferiore rispetto allo "Schwarze Null", che nel frattempo è diventato il feticcio del Ministero delle Finanze.

Lo Schuldenbremse è pericoloso, in quanto le sue procedure di aggiustamento ciclico eliminano rapidamente gli spazi di manovra. Gli studi sullo Schuldenbremse svizzero lo mostrano chiaramente: esiste da piu' tempo rispetto a quello tedesco e i metodi di adeguamento al ciclo economico hanno un minore effetto pro-ciclico rispetto allo Schuldenbremse tedesco. E' plausibile pensare che la sua applicazione implichi una particolare debolezza degli investimenti. Supponiamo ad esempio che il governo si aspetti che il deficit pubblico superi la soglia consentita dallo Schuldenbremse. In questo caso ha 3 opzioni:

1) il governo puo' aumentare le tasse. Si tratta di un processo legislativo lungo e impopolare. Pertanto un governo potrebbe essere riluttante nello scegliere questa opzione.

2) può ridurre la spesa corrente. Ma cio' è possibile solo in misura limitata. La parte principale della spesa corrente è costituita da spese per il personale, che al massimo potranno essere ridotte nel lungo termine. In considerazione dei fabbisogni di personale non coperti, anche questa scelta risulterebbe alquanto impopolare. Anche questa opzione non potrebbe essere esercitata in misura significativa. Resta come ultima risorsa:

3) il governo puo' ridurre la spesa per investimenti. E' la variante piu' facile da realizzare. Alla fine si tratta di risorse disponibili, la cui non-spesa nel breve periodo non ha alcun impatto negativo, e allo stesso tempo migliora rapidamente la situazione di bilancio. Non è quindi sorprendente che questo approccio sia la risposta piu' probabile alle limitazioni imposte dai bilanci pubblici.

In questo scenario, l'affermazione secondo cui lo Schuldenbremse è allo stesso tempo "necessario e giusto" non è compatibile con l'obiettivo di aumentare in maniera sostenibile la spesa per investimenti - impossibile che accada con lo Schuldenbremse in vigore. Al massimo, nei periodi di buona congiuntura economica e con elevate entrate fiscali - come accade adesso - ci si puo' aspettare un aumento temporaneo degli investimenti. In caso contrario, soprattutto in tempi di difficoltà economiche, saranno la prima voce ad essere tagliata. E questo vale ancora di piu' se lo Schuldenbremse è progettato in maniera piu' rigida. La tanto desiderata spinta verso l'alto della produttività in queste condizioni appare improbabile.

Lo Schuldenbremse impedisce un aumento del benessere e quindi la riduzione del debito, che in realtà era il suo obiettivo - per non parlare del fatto che non ha niente a che fare con l'equità intergenerazionale. Alla fine l'infrastruttura sarà utilizzata per diverse generazioni, fatto che rende giustificabile il contributo delle generazioni future attraverso un finanziamento del debito.

Questa gestione degli investimenti ha anche un altro effetto: amplifica le fluttuazioni economiche. Se nelle fasi espansive le spese per investimenti crescono mentre nei periodi piu' difficili vengono ridotte, succede esattamente il contrario di quello che sarebbe richiesto per ragioni di stabilità. Quindi non stupitevi se in futuro le fluttazioni cicliche saranno amplificate. Non mi pare né necessario, né giusto.

Mercati finanziari ancora instabili.

L'obiettivo dichiarato dello Schuldenbremse è la riduzione del debito pubblico. Obiettivo desiderabile e giustificabile nella misura in cui tiene sotto controllo l'onere per gli interessi nei conti pubblici. Alle fine queste risorse saranno disponibili per altri usi, piu' produttivi, come ad esempio gli investimenti pubblici. Ma si tratta di una prospettiva sul debito pubblico che è possibile seguire per buone ragioni solo fino a quando il debito pubblico è relativamente alto.

Cosa accadrebbe se lo Schuldenbremse avesse il successo che i suoi sostenitori auspicano? Il debito pubblico si stabilizzerebbe probabilmente ad un livello di poco superiore al 10% del PIL. Dal punto di vista dei sostenitori sarebbe un successo - dal punto di vista del mercato dei capitali sarebbe una catastrofe. 

Perché dal punto di vista dei mercati finanziari il debito pubblico è fatto dai titoli del debito pubblico. Questi titoli sono l'investimento per tutti coloro che cercano la sicurezza sui mercati finanziari. Questa forma sicura di investimento viene di fatto ridotta dallo Schuldenbremse e costringe gli investitori ad un maggior rischio oppure alla liquidità. Le conseguenze non sarebbero solo minori investimenti, ma anche mercati finanziari piu' instabili. Anche questo non è né necessario né buono per l'economia.

L'introduzione dello Schuldenbremse in Germania nel 2009 era stata celebrato, soprattutto da CDU e SPD, come un grande successo di politica economica. Nel frattempo anche in questi partiti l'entusiasmo si è spento. Nel dibattito pubblico, soprattutto nei Laender, si tende ad attribuire le buone condizioni dei bilanci pubblici all'effetto dello Schuldenbremse. In realtà il miglioramento delle finanze pubbliche è dovuto in buona parte alla congiuntura supportata dalla situazione economica interna.

L'inutile ricerca di scappatoie

Nel frattempo dietro le quinte si lavora in  tutti i modi per aggirare lo Schuldenbremse. Questi sforzi vanno dal livello europeo (parola chiave "Piano Juncker") fino al Ministero delle Finanze con la nuova società di gestione delle autostrade che dovrà agire ed investire al di fuori del bilancio pubblico. Al Ministero dell'Economia invece c'è la commissione guidata da Marcel Fratzscher per la promozione degli investimenti il cui unico obiettivo è quello di esplorare nuovi modi per aumentare gli investimenti e sfuggire al giogo dello Schuldenbremse. Senza lo Schuldenbremse, questa commissione non ci sarebbe mai stata, perché semplicemente non sarebbe stata necessaria.

Non c'è da meravigliarsi se lo Schuldenbremse oggi sembra essere già antiquato: si basa su di un pensiero economico superato. Lo Schuldenbremse puo' funzionare solo se l'economia non va in crisi. Si basa sul presupposto che il sistema di mercato sia intrinsecamente stabile e non richieda nessun intervento stabilizzatore attraverso la politica fiscale. In verità implica molto di piu': una duratura assenza dello stato in materia di politiche di stabilità. Questo compito, considerato non necessario, viene lasciato alla politica monetaria.

Le crisi degli ultimi anni hanno mostrato chiaramente che questo punto di vista è falso. La politica monetaria è stata sovraccaricata di compiti, e ha bisogno di ulteriori interventi discrezionali di politica fiscale per poter ripristinare la stabilità. Lo Schuldenbremse è inutile e sbagliato. La sua eliminazione sarebbe una misura di politica economica sensata. Ma il coraggio politico per farlo nella Germania del 2016 è difficile da trovare.

venerdì 21 ottobre 2016

Perché in Germania è necessario rilanciare gli investimenti

Marcel Fratzscher, presidente del prestigioso Deutschen Instituts für Wirtschaftsforschung (DIW Berlin), istituto di ricerca vicino agli interessi degli industriali, su Makronom.de lancia un appello al governo tedesco: il FMI ha ragione, in Germania è necessario rilanciare gli investimenti pubblici e privati. Da Makronom.de

Jobwunder, boom economico, consumi in crescita: la Germania oggi si sente la superstar europea. Tuttavia un po' piu' di modestia non farebbe male - perché i dati positivi riflettono solo una fase di recupero rispetto al passato. La politica dovrebbe piuttosto riflettere sui regali elettorali e fare di piu' per rafforzare gli investimenti pubblici  e privati. Un commento di Marcel Fratzscher.

Il FMI pochi giorni fà ha criticato il governo federale per la sua politica finanziaria sbagliata. Il Fondo chiede al governo tedesco di utilizzare lo spazio fiscale - il cosiddetto "fiscal space" - per rilanciare gli investimenti pubblici e privati e in questo modo rafforzare la crescita in Germania e in Europa. Questo appello in Germania è caduto nel vuoto, molti lo rifiutano. Otmar Issing, - uno dei precedenti capo-economisti della BCE e uno dei piu' importanti economisti tedeschi - ha risposto sulla FAZ a queste critiche.

Issing giustamente mette in guardia dalla debolezza degli investimenti in Germania e chiede al governo di aumentarli in maniera significativa. Questi investimenti secondo Issing non dovrebbero essere finanziati facendo nuovo debito, ma con una riorganizzazione del bilancio pubblico: una spesa piu' elevata dovrebbe essere bilanciata da una riduzione dei consumi pubblici.

In un contesto di solido sviluppo economico al Ministro delle Finanze non mancano certo le entrate fiscali. Una larga parte dello spazio fiscale disponibile il governo lo ha utilizzato per regali elettorali economicamente non molto sensati, come ad esempio la riforma delle pensioni. Costo: 10 miliardi di Euro all'anno.

Otmar Issing ha ragione anche quando sottolinea che una maggiore spesa pubblica in Germania non basterebbe a rilanciare la crescita in Italia e negli altri paesi in crisi.

Ci sono tuttavia diversi buoni motivi per ripensare la politica fiscale in Germania. L'argomento secondo il quale la Germania ha già raggiunto il potenziale produttivo massimo e quindi non ha bisogno di una maggiore spesa pubblica non è corretto. Perché il problema principale dell'economia tedesca è che la crescita potenziale negli ultimi 20 anni è stata troppo bassa ed è ancora troppo bassa.

La Germania oggi si sente la superstar europea: c'è un miracolo occupazionale, l'economia è in piena espansione, i consumi crescono. Tuttavia in molti ignorano che l'andamento dell'economia del paese è, ed è stato, tutt'altro che impressionante. Due fatti lo mostrano chiaramente. L'economia tedesca da inizio 2008 è cresciuta dell'8%, solo l'% all'anno. E' molto poco, ed è chiaramente sotto l'attuale crescita potenziale, cioè fra l'1.25% e l'1.50%.

Ancora piu' deprimente è la performance economica degli ultimi 2 decenni. Dall'inizio dell'unione monetaria nel 1999 l'economia tedesca è cresciuta del 3% in meno rispetto all'economia francese e del 10% in meno rispetto a quella spagnola. Ci dimentichiamo volentieri che ancora 10 anni fà la Germania era il malato d'Europa che suscitava nei suoi vicini la stessa compassione con la quale oggi i tedeschi guardano agli altri paesi in crisi. Per questa ragione alla Germania farebbe bene un po' piu' di modestia. I buoni tassi di crescita attuali riflettono una fase di recupero rispetto agli anni perduti di inizio 2000.

Queste cifre mostrano che la piu' grande debolezza economica della Germania è un livello troppo basso di investimenti, che in ultima analisi è la causa della bassa crescita della produttività e dell'economia negli ultimi 20 anni. Gli investimenti non solo creano un aumento della domanda di breve termine - ma hanno effetti ancora piu' importanti sul lato dell'offerta con un aumento della produttività e del potenziale di crescita.

La Germania ha bisogno di una svolta nella politica fiscale. Il "freno all'indebitamento" (Schuldenbremse) è giusto e necessario ed ha contribuito alla riduzione del debito pubblico, purtroppo anche a scapito degli investimenti pubblici. Il governo federale dovrebbe ripensare i suoi regali elettorali e al loro posto rafforzare gli investimenti pubblici. In questo contesto assisto con una certa ansia  alle sempre piu' grandi promesse di riduzione delle tasse che i partiti politici attualmente stanno facendo agli elettori.

Piu' investimenti, partendo da quelli pubblici, rafforzerebbero la produttività e la crescita potenziale dell'economia tedesca, aiuterebbero a mantenere i posti di lavoro buoni nel paese, e assicurerebbero un futuro sicuro alle aziende e ai lavoratori tedeschi. 

venerdì 14 ottobre 2016

Non è tutta colpa dei sindacati tedeschi

Gustav Horn, direttore del prestigioso Instituts für Makroökonomie und Konjunkturforschung (IMK) presso la Hans-Böckler-Stiftung, ci spiega perché i sindacati tedeschi non possono essere il capro espiatorio della crisi Euro. Da Makronom.de

I sindacati sono stati accusati spesso di eccessiva moderazione salariale. Di fatto, la formazione dei salari in Germania, e soprattutto in Europa, non è ottimale. Purtroppo i critici ignorano la realtà della contrattazione collettiva. Un commento di Gustav Horn.

Da un po' di tempo alcuni economisti considerano poco ragionevoli le contrattazioni collettive condotte dai sindacati, criticandone i risultati raggiunti perché giudicati insufficienti. Poiché i salari in Germania, per un lungo periodo di tempo, sia in una prospettiva storica che in un confronto internazionale sono cresciuti molto poco, questa critica non puo' essere respinta a priori. Considerando i giganteschi avanzi commerciali con l'estero, è necessario domandarsi se questi non siano stati raggiunti con il dumping salariale e se non siano alla radice della crisi dell'Eurozona.

Accordi salariali moderati

La critica avanzata può' essere illustrata in maniera esemplare dalla recente negoziazione salariale nell'industria meccanica. L'accordo raggiunto prevede che i salari crescano questo e il prossimo anno del 2.5%. Questi accordi vengono criticati in quanto sarebbero un esempio concreto di moderazione salariale da parte del sindacato tedesco. Considerare un accordo "troppo basso" significa avere uno standard di riferimento, secondo il quale gli aumenti salariali dovrebbero essere più' o meno giusti.

La critica si basa su di una misura che può' essere descritta come il contributo della politica salariale alla stabilità dell'economia in generale, e quindi come una politica salariale macroeconomica.  L'ipotesi di fondo è che la tendenza nominale complessiva dei salari debba seguire il trend degli aumenti di produttività piu' l'obiettivo di inflazione della BCE (intorno al 2%).

Una politica salariale orientata all'economia in generale

In primo luogo assicura che la dinamica salariale sia orientata all'aumento dell'efficienza dell'economia senza che le condizioni sul lato dell'offerta si deteriorino. Inoltre, la partecipazione alla crescita della produttività assicura che la produttività aggiuntiva si trasformi in un aumento del potere di acquisto, e che quindi la domanda ne esca rafforzata. Un tale approccio permette di mantenere un equilibrio fra domanda e offerta. Gli aumenti contrattuali dovrebbero orientarsi al trend degli aumenti di produttività, al fine di evitare le fluttuazioni cicliche nella tendenza dei salari.

Sempre secondo questo concetto i salari dovrebbero allinearsi all'obiettivo di inflazione della BCE. In questo modo si evita che la dinamica salariale possa mettere in pericolo la stabilità dei prezzi nell'economia.

Con l'introduzione dell'Euro, l'importanza di questo requisito è diventata ancora maggiore. All'interno dell'area Euro non esiste né un tasso di cambio nominale né un'autorità fiscale europea in grado di compensare le disparità economiche tra le diverse economie. Cosi' la stabilità del tasso di cambio reale, vale a dire i prezzi relativi fra i diversi paesi, è determinante.

Se il tasso di cambio reale fra le diverse economie si disallinea in maniera strutturale, e cioè se i prezzi crescono in un paese molto piu' rapidamente di quanto accade in un altro paese, si crea uno squilibrio esterno con un accumulo di asset nel paese che ha svalutato e un indebitamento nel paese sopravvalutato. Che una tale situazione non sia sostenibile, la crisi del 2009 lo ha mostrato in maniera drammatica.

Se misurati su questo criterio, i recenti accordi salariali sono di fatto troppo bassi. Dal punto di vista dell'economia nazionale, invece, la politica salariale è molto vicina al suo obiettivo macroeconomico


Alla base c'è anche il fatto che il trend degli aumenti di produttività in Germania ha rallentato sensibilmente - di conseguenza resta poco spazio per aumenti salariali nominali. Da questo punto di vista la critica mossa nei confronti dei sindacati non è giustificata.

Le cose stanno diversamente se osserviamo la politica salariale tedesca dal punto di vista europeo. In questo caso non è sufficiente prendere gli sviluppi recenti come metro di giudizio. E' necessario prendere in considerazione anche gli anni passati per poter correggere la lunga fase di svalutazione e riportare il tasso di cambio reale ai requisiti di stabilità europei.


In questa immagine si vede chiaramente che l'evoluzione dei salari in Germania, i cui effetti si riversano sul costo del lavoro per unità di prodotto, da molto tempo non è piu' in linea con l'obiettivo di stabilità dei prezzi della BCE. Affinché il riallineamento possa avvenire, i salari dovrebbero crescere con forza ancora per molti anni. Su questo punto la critica appare giustificata. La politica salariale in Germania non ha fatto nulla per stabilizzare l'Eurozona.

La politica salariale oberata

Sulla base di questa constatazione è opportuno sollevare una questione fondamentale: una politica salariale con cosi' tanti compiti macroeconomici, non è oberata?

Da un punto di vista puramente interno è cosi'. I critici spesso sembrano dimenticare che alla politica salariale appartengono due lati: sindacati e organizzazioni dei datori di lavoro. Queste ultime, per difendere i loro interessi economici, si oppongono ad ogni richiesta di aumento salariale - le considerazioni macroeconomiche per loro non hanno alcuna importanza. Scaricare solo sui sindacati la responsabilità di un risultato contrattuale insoddisfacente, è un approccio asimmetrico.

A cio' si aggiungono ulteriori elementi economici. In periodi di alta disoccupazione la posizione contrattuale dei sindacati è debole. Anche se la disoccupazione -  come nei decenni passati - è il risultato di una mancanza di domanda e da un punto di vista macroeconomico sarebbe auspicabile una forte crescita dei salari, è tuttavia impossibile raggiungerla in queste condizioni. Qui è necessario l'intervento della politica fiscale - il settore privato non puo' risolvere da solo una tale crisi.

Non dobbiamo tuttavia trascurare che anche i sindacati hanno dei legittimi interessi economici. Cosi' nelle contrattazioni sindacali non si parla solo di aumenti salariali, ma spesso anche di miglioramento delle condizioni di lavoro per i dipendenti di un settore. Questi successi negoziali dei sindacati non possono pero' essere convertiti in un determintato livello di salario. I datori di lavoro, invece, per ogni concessione qualitativa si rifanno sui lavoratori con un minore aumento. Considerare questo scambio solo come una moderazione salariale significa avere una visione incompleta.

Ancora piu' importanti sono le tendenze strutturali che si scontrano con le riflessioni macroeconomiche, in particolare la sempre minore copertura dei contratti collettivi: solo il 50% dei dipendenti ha un contratto collettivo di categoria. La differenza fra gli aumenti salariali previsti dai contratti collettivi e gli aumenti salariali complessivi (lohndrift) in passato è stata considerevole. Ma su questo punto i sindacati non hanno alcuna responsabilità.

Dietro la decrescente applicazione dei contratti collettivi si nasconde, dal punto di vista dei sindacati, una grave tendenza - e cioè la crescente eterogeneità all'interno dei diversi settori. Ad esempio nell'industria automobilistica ci sono imprese molto redditizie che senza problemi potrebbero pagare un salario decisamente piu' elevato rispetto agli aumenti salariali contrattuali. Lungo la catena del valore ci sono pero' a volte delle differenze significative.

Cosi' alcuni fornitori subiscono la pressione dei grandi produttori finali, i quali riescono a spingere verso il basso i prezzi dei loro fornitori, fatto che ne peggiora la loro redditività. Gli aumenti salariali complessivi metterebbero perciò' in difficoltà i fornitori, perché hanno una debole posizione di mercato nei confronti dei loro clienti finali - e non perché, ad esempio, dispongono di una limitata capacità innovativa. La loro uscita dal mercato non porterebbe alcun vantaggio macroeconomico - al contrario.

Molto piu' difficile invece è il trasferimento a livello europeo del concetto di salario macroeconomico. Mentre in Germania i presuppostoti istituzionali per la definizione di un salario che tenga conto delle condizioni generali dell'economia ci sono già, questa struttura è quasi completamente assente nell'unione monetaria. 

In queste circostanze riuscire a definire una regola comune per la definizione dei salari è teoricamente possibile nel lungo periodo, ma sicuramente impossibile nelle condizioni attuali. La critica secondo cui alle politiche salariali tedesche manca un orientamento europeo puo' essere giustificata in considerazione di quanto sarebbe necessario fare, ma è ipocrita. Per arrivare a risultati sostenibili serve un lungo lavoro  di costruzione delle strutture di negoziazione salariale a livello europeo.

La politica salariale attuale

Senza dubbio la formazione dei salari in Germania, e ancora di piu' in Europa, non puo' essere considerata ottimale. Gli accordi istituzionali e le condizioni politiche del mercato del lavoro non lasciano sperare in un miglioramento. Non ha molto senso, in questo contesto, accusare i sindacati di eccessiva moderazione salariale. Da un lato, come mostrato sopra, gli attuali accordi salariali dal punto di vista delle necessità dell'economia interna non possono essere considerati troppo bassi. Dall'altro, i problemi a livello europeo sono troppo gravi per poter essere risolti solo dai sindacati. Qui sono responsabili prima di tutto i governi.

Anche i criteri macroeconomici utilizzati dai critici sono assolutamente ragionevoli - solo che il mancato rispetto di questi criteri non è esclusivamente responsabilità dei sindacati, come i critici invece amano ripetere.